8 - da Carcassonne a
Pexiora
9 Agosto - 31 km. - 10 chiuse.
Dopo una bella dormita ci alziamo ed osserviamo
il panorama, dalle finestre della camera,
dei grossi finestroni dell’albergo
di fronte (finestroni di almeno un metro
per due e cinquanta), dove la gente si
alza, si veste ed esce per un giro turistico.
Comprese belle ragazze bionde, un po’
troppe, tanto che ci viene da pensare
che non sia un covo di ragazze dell’Est.
Sto scrivendo queste righe nel cesso comune
dell’albergo (Massimo sta utilizzando
quello della camera) dove un corretto
sistema di illuminazione comandato da
cellule che rilevano il movimento, spegne
la luce ogni trenta secondi circa. La
prima volta mi sono spaventato, mi sono
alzato di scatto dal mio scranno e sono
corso alla maniglia della porta. Improvvisamente
si riaccende la luce e mi sono accorto
della fotocellula, pensando quanto sono
fortunato che non si fosse trattato di
un black-out elettrico (ho utilizzato
un po’ di carta igienica per detergermi
il sudore dalla fronte per lo scampato
pericolo).
Comunque, per farla breve, ogni volta
che si spegne la luce mi tocca alzare
la mano destra, sventolarla a destra e
sinistra come un gesto di saluto verso
immaginari conoscenti al di la’
della porta.
Buona ed abbondante colazione a buffet
in un freddo salone tutto bianco, colonne
a specchio e gente tristemente stanca
che bisbiglia ai tavoli. Si nota subito
l’assenza di gruppi di italiani
negli alberghi, per lo meno per il silenzio
delle conversazioni bisbigliate.
Facciamo un giretto mattutino in citta’
per scoprire che non ci faranno passare
la chiusa del porto canale, nonostante
l’eclusier carina e cortese, forse
un po’ troppo giovane per avere
il piglio energico e decisionista che
ci avrebbe evitato una fatica di prima
mattina.
Visitiamo un supermarche’ per fare
provvista di alcune vettovaglie ed una
bella chiesa in pietra che stranamente
mantiene all’interno un clima piu’
caldo e afoso di quanto sia per strada.
Ci tocca quindi trasportare il kayak dal
garage per duecento metri di strada trafficata,
attraversare un incrocio e cercare un
punto di imbarco dopo il porto canale.
All’ora di pranzo ci fermiamo ad
una chiusa attendendo l’arrivo di
qualche battello che si faccia aprire,
per passarci assieme.
Le chiuse in genere non vengono aperte
solo per i kayak, giustamente, quindi,
quando non abbiamo proprio voglia di trasbordare,
ne approfittiamo per riposare all’ombra
in attesa di scroccare un attraversamento.
Doccia parziale in attesa dell'apertura della chiusa
Il trasbordo in effetti ci permetterebbe
di risparmiare tempo. Il passaggio all’interno
della chiusa porta via sempre almeno trenta
minuti, mentre il trasbordo, ora che ci
siamo ormai impratichiti, dimezzerebbe
i tempi ed e’ comunque favorevole
nel caso di chiuse doppie o triple.
Resta il fatto pero’ che il trasbordo
e’ una rottura di coglioni incredibile:
scarica il bagaglio per alleggerire il
kayak, e issarlo sulla riva che spesso,
per fortuna, e’ abbastanza bassa
e verdeggiante, trascinalo sull’erba,
monta il carrello, riponi sopra i bagagli,
trasportalo in salita (perche’ si
sale alla quota delle sponde della chiusa
che sono piu’ alte del canale) su
strada sterrata, scarica ancora il bagaglio,
stacca il carrello, metti il kayak in
acqua sperando in rive altrettanto verdi
e basse (quasi sempre per fortuna), ricordati
di riporre i bagagli in canoa prima di
gettarla letteralmente in acqua, senno’
sarebbe problematico stiparli con canoa
galleggiante e via! in acqua.
Ci fermiamo a Bram, che sembra l’onomatopeico
sbattere di una porta con violenza, invece
e’ il solito piccolo paesino in
cui ci rilassiamo con un gelato ed un
panache’. Questa volta in lattina,
preconfezionato, e non e’ la stessa
cosa, sa piu’ di limonata che di
birra.
Ora gli equipaggi di imbarcazioni che
incontriamo sul canale sono piu’
di nazionalita’ spagnola che francese,
non chiedetemi il motivo in quanto anch’io
non ne capisco la ragione.
Barcone in manovra per l'ormeggio
Inoltre sembra che gli eclusier si facciano
piu’ gentili. Addirittura si segnalano
a vicenda il nostro arrivo in modo che
riusciamo a passare le ultime chiuse piu’
velocemente. Sara’ anche grazie
al nostro aspetto che va peggiorando di
giorno in giorno, siamo piu’ trasandati
e ci capita di arrivare alle chiuse, in
genere, piuttosto trafelati e sudaticci.
Di sicuro non ce la facciamo piu’
ad affrontare queste chiuse che, se i
primi giorni potevano essere la novita’
del viaggio, ora sembrano una uguale all’altra
e quasi imploriamo ogni volta il passaggio
per evitare il trasbordo.
Ad un certo punto decidiamo addirittura
di salire sulla riva e percorrere un bel
tratto a piedi con il kayak al guinzaglio,
sotto gli occhi divertiti di qualche paziente
pescatore.
kayak al guinzaglio per entrare in chiusa
Scegliamo la chiusa di Treboul, isolata
fra gli abitati di Pexiora e Lasbordes,
per piantare il campo. Carrelliamo appena
oltre, in quanto e’ passato l’orario
di apertura, e ci sistemiamo lungo il
canale su un prato, vicino ad alcune
imbarcazioni che attendono anch’esse
di continuare il viaggio la mattina
seguente.
Da una di queste, un bel barcone da
canale, esce un “argonauta”,
dal nome dell’imbarcazione, un
tipo sui settant’anni, capelli
lisci e semilunghi con codino che ci
chiede scandalizzato, in inglese, perche’
stiamo montando le tende con un tempo
cosi’ caldo.
Vedendo, noi, il tipo scafato, per non
fare brutte figure ci salviamo dicendo
che giorni addietro abbiamo trovato
delle zanzare piuttosto fameliche, per
cui dormire per terra con il solo sacco
a pelo non sarebbe stato il massimo
del riposo. La faccia e’ salva!
Il tipo poi nota il kayak e recupera
dalla memoria un fatto successo quando
aveva tredici anni ed aveva realizzato
un kayak simile al nostro, in legno
e tela. Quindi ci saluta e ci risparmia
quello che probabilmente sarebbe stato
un bellissimo racconto, anche se inframezzato
da parecchi vocaboli inglesi a me del
tutto sconosciuti, che ci avrebbe pero’
fatti sentire un po’ dei privilegiati
ad aver potuto comprare un kayak e non
averlo costruito con stecchetti di legno
recuperati qua e la’.
Riusciamo a lavarci con parte della
nostra razione di “eau de rubinet”,
come abbiamo scoperto chiamarsi la caraffa
d’acqua naturale da chiedere a
tavola, e ci dirigiamo verso il vicino
paese di Pexiora dove la guida de canale
segnala un posto per cenare.
Attraversiamo bei campi coltivati,
stradine asfaltate ma poco frequentate,
da cui si vede il paese in lontananza,
sperduto nella campagna e con la solita
chiesa, bella e maestosa, illuminata
a giorno (siamo ormai al crepuscolo).
Peccato pero’ che non ci sia alcun
ristorante o trattoria o brasserie in
vista. C’e’ solo un bar/ristorante/pizzeria/ritrovo
unico del paese, dove troviamo un barista
molto affabile che ci serve quattro
birre, un piattino di pomodorini del
campo, un piattino di noccioline salate
e due gelati confezionati.
Questa e’ la nostra cena a Pexiora.
Lasciamo il posto portandoci dietro
una bottiglia da due litri di limonata
per digerire il mix che abbiamo ingerito.
Giunti alle tende, dopo circa due chilometri
(tanto dista il paese dal canale) di
strada buia illuminata solo da una luna
splendente, ci viene ancora fame e decidiamo
di finire la mezza baguette comperata
a Carcassonne. Ci infiliamo dentro del
salmone in scatola, pistacchi per contorno
e finiamo l’ultimo goccio di Pernod
allungato con la limonata in quanto
abbiamo anche terminato l’acqua.
Cena con le ultime
briciole di vettovaglie
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